A quelle parole degne del peggiore maniaco non riuscii a rispondere. Entrò poi in una delle case e io rimasi fuori, tornai a sentire le grida di terrore che anche i miei genitori avevano prodotto, e ne dedussi che altre vite umane innocenti erano state sacrificate. Dopo un po' ne uscì con un'altra ragazza che aveva avuto circa la mia età apparente, 15 anni. Era molto carina, ma il suo bel viso era rovinato dalle smorfie di terrore che aveva guardandomi e poi a quelle di dolore per la stretta di quel folle Tremere, che le cingeva fortemente la vita, quasi godendo della sua sofferenza, e dopodiché, porgendola verso di me, me la offrì. Io, sdegnato da quel modo di trattare un essere umano, risposi con un secco no, e pregai il Tremere di non uccidere la ragazza, che ormai aveva capito dai miei occhi che io non ero cattivo. Tuttavia continuava sempre a chiedermi aiuto, anche se non c'era più nient'altro che avrei potuto fare. Dopo essersi leccato i canini, Argil addentò la fanciulla che nel giro di tre minuti, benché agitandosi fortemente, morì e fu gettata a terra inerme.
"Vedi, così si devono trattare. Fammi vedere ora tu cosa sai fare...".
E proseguì con altre sue considerazioni sulle donne e soprattutto su quelle giovani come me, con cose indicibili che è male esprimere. Quelle stesse parole però cominciavano a farmi arrabbiare, sentivo dentro di me una forza sconosciuta spingermi all'ira; non potevo più tollerare le insinuazioni maniache di quel Tremere. Quasi come se mi avesse letto nella mente, cominciò a capire io cosa intendevo, e intuì che stavo per scatenare la mia irrefrenabile ira.
Allora cercò di calmarmi, ma non poté far nulla, anzi mi incoraggiò e mi stuzzicò quasi a voler vedere le mie reali potenzialità. Finché dissi basta, alzai la mano, e dal mio palmo aperto uscì una palla di fuoco che andò a colpire Argil proprio sul petto. Lui cadde a terra stordito. Io mi riebbi, e non riuscivo a capire come diavolo avesse fatto quella palla di fuoco a comparire dal mio palmo...
Quando anche il Tremere si rialzò, io rimasi impaurito da quello che sarebbe potuto accadere, ma mi disse, sempre con quei suoi occhi con la luce verde, "Bravo, ragazzo", agitò le mani e lanciò qualcosa come una polverina a terra. Si alzarono tante piccole palline rosa, che cominciarono a girare in cerchio.
"Vai, che ho vinto la scommessa", mi disse Argil, e io lo ascoltai.
Entrai nel cerchio, e in un attimo mi trovai in una cella illuminata ma stretta, con intorno a me ancora quelle palline rosa; uscii dal cerchio che formavano, e in un attimo tornarono a terra tutte quante per poi scomparire. Non mi rendevo proprio conto degli eventi che stavano accadendo, né tanto meno di quella "scommessa": cosa avrebbe mai potuto significare? Non venne nessuno quella notte in quella cella in cui ero stato teletrasportato. La stanchezza derivata dalla successione degli eventi che il mio cervello aveva dovuto subire fu tanta e mi immersi in un inquieto sonno. Il giorno seguente alcuni servi mi svegliarono velocemente e mi condussero un po' bruscamente attraverso tutto la struttura sopra la mia cella, facendo attenzione naturalmente a non passare alla luce solare: un intero edificio gigantesco, un castello, che sembrava molto più grande di quello di Lutark.
Arrivati in un atrio gigantesco e rettangolare, mi lasciarono e si fermarono sulla soglia. Lì c'era un tappeto rosso a terra, e alzando lo sguardo, vidi a circa trenta metri da me un trono, e un uomo seduto. Era la personificazione del tipico mago cattivo delle favole: aveva i capelli scuri e tirati all'indietro, un mantello nero, con del trucco bianco in volto e gli occhi scurissimi delineati da un tratto scuro come gli occhi. |