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Le Gemme dell'Anima 4: la caduta del Velo Mystery Cache

Hidden : 9/18/2016
Difficulty:
3.5 out of 5
Terrain:
1.5 out of 5

Size: Size:   other (other)

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Geocache Description:

Cache by

Lord Yoruno


Questa cache è la quarta e ultima mystery de "Le Gemme dell'Anima", una serie di cache che segue le vicende di una storia investigativa dai risvolti inspiegabili ambientata ai nostri giorni.

Alcuni vi troveranno citazioni di serie televisive, romanzi, film e giochi di ruolo dei primi anni '90, quali ad esempio Twin Peaks, Fuoco cammina con me, Kult o ancora Insomnia.

Mystery #1: Lo strano furto
Mystery #2: La reliquia del Male
Mystery #3: Ombre nel buio
Mystery #4: La caduta del Velo

. presi la Coda del Cane, la bruciai e mischiai le ceneri evocando la Testa del Diavolo chiamato Ra's al-ghul .
. urlai parole blasfeme, ad egli gradite, mentre in Ginocchio mi prostravo di fronte al braciere fumante .
. impugnai con la dorata Chela del Nord, l'altro orrore di cui necessitavo, il Cuore dello Scorpione, e lo gettai tra le ceneri immonde .
. la mia prima visione fini allora alla vista della Guardia del Sole, alta nel suo splendore, assieme all'Elevata del Lanciere che scaccio' il velo che copriva la realta' di fronte a me .

. lessi allora un altro incantesimo scritto secoli prima dalla Fortunata delle Cose Nascoste, magia che avrebbe aperto piu' a fondo lo squarcio tra i mondi e consentire alla vista di spaziare nel dominio oscuro .
. alzai quindi al cielo lo Stinco del capro, lo bruciai nuovamente con le fiamme che avevo ravvivato e ne respirai i fumi amari, e poco dopo la mia mente stava scavalcando il gradino tra il nostro e il loro mondo .
. camminai a lungo, e fui stanco e assetato, ma vidi infine in lontananza cupe costruzioni, ed entrai quindi a passo pesante tra gli edifici ormai corrotti dal tempo. La Citta': cosi si chiamava quel posto maledetto, dato che il suo nome non era pronunciabile, e il male viveva tra le sue vie .
. arrivai quindi alla meta del mio viaggio, il tempio eretico di questi antichi demoni, e camminai tra l'eco dei miei passi tra la polvere fino a giungere nell'ultima stanza, che sapevo essere chiamata la Quarta Stella del Mausoleo. il suo portale era stato decorato da mani sapienti, e per aprirla vi era una spessa corda che, al tocco, si rivelo' essere invero il collo del Secondo Struzzo di Ritorno .

la tirai, e vidi che il portale si sgretolava vecchio dal tempo passato, e dietro di me urla e pianti e risa eretiche e loro che potevano uscire, liberi della loro prigione, liberi di muoversi, liberi di vagare finalmente oltre il velo.

A prima vista sembrava davvero lo sproloquio di un pazzo, di un alchimista folle o, più semplicemente, di qualcuno che, come me, era finito in un incubo senza fine, ma dopo mesi passati a studiarne le parole avevo capito che il senso di tutto questo andava cercato nelle stelle.
Strane configurazioni astrali sembravano essere la chiave per aprire un portale, un qualcosa che era stato messo secoli, millenni prima per fermare... qualcosa di orribile.

Non riuscivo però a capire cosa dovessi fare, o anche solo perchè fossi coinvolto in tutto questo.
Dovevo fermare qualcuno?
Dovevo forse essere io ad aprire quel portale?
Davvero, non riuscivo a capire.

Fu solo per caso, dopo qualche tempo, che mi accorsi che quella pergamena consumata su cui tanto mi accanivo era, in realtà, una vecchia fotografia... un pensiero lontano mi attraversò la mente: e se invece di scervellarmi la soluziona più semplice era quella giusta?
Decisi di tornare in quel pub fumoso, l'"Eletabbo", dove tempo fa avevo trovato il nerd barbuto che mi aveva aiutato: non erano passate molte birre - ed ero stranamente sobrio - quando lo vidi entrare; evidentemente era un cliente abituale del posto.
Lo avvicinai nuovamente con la scusa di quel gioco scemo, il Geocaching, e lui si illuminò subito: mi aveva riconosciuto e, senza che gli chiedessi niente, mi raccontò per quasi mezz'ora le sue mirabolanti avventure di ricerca di scatoline nascoste dietro i pali della luce.
Una vera gioia.
Mi raccontò anche di aver passato le nottate, senza dormire, a correre dietro alle nuove scatoline pubblicate da un tipo strano, un certo AsdrubaleGiangiacomo, che ultimamente era diventato il suo fornitore ufficiale.
Di che, non lo capii.
Quando finalmente si fermò per prendere un attimo fiato riuscii a fargli vedere la pergamena, dicendogli che lo sfondo mi sembrava una fotografia ma che, purtroppo, era molto molto sbiadita e non si riusciva a capire granchè.
Lui si interessò subito alla cosa e mi chiese di poterla portare a casa: usando dei software su computer e non so quale altro strano marchingegno mi promise che sarebbe riuscito a cavarne fuori qualcosa di decente. Non avendo altre idee gli diedi la foto e ci mettemmo d'accordo per rivederci una settimana dopo.

Sette giorni dopo ero seduto pensieroso davanti ad un bicchiere di whisky quando mi giunse una telefonata: era un mio caro amico e collega, che mi aveva aiutato in questo periodo assurdo della mia vita.
Mi disse trafelato che dovevo assolutamente correre da lui; era sul luogo di un orribile omicidio e che stava tenendo in mano qualcosa che mi avrebbe messo in dei casini terribili. Non voleva assolutamente anticiparmi nulla per telefono, quindi uscì di corsa per raggiungerlo in più in fretta possibile.
In neanche 20 minuti ero sul posto: un piccolo viottolo di campagna, mezzo sterrato, che finiva in una piccola radura ai margini dei campi, dove qualche apicoltore aveva posizionato le sue arnie.
Quello che però saltava all'occhio non erano di certo le api, ma il fatto che tra ambulanze, Polizia, Carabinieri e curiosi c'erano almeno 30 persone quella sera, quando normalmente quel posto era sicuramente deserto.

Mi presentai e venni subito fatto passare avanti, sotto ai nastri bianco rossi, per essere poi indirizzato verso il mio collega che, appena mi vide, mi fece cenno di aspettarmi in disparte. Senza dire una parola mi diede in mano una busta di plastica con all'interno un foglio abbondantemente insanguinato; guardandolo meglio mi accorsi che era un ingrandimento della fotografia che avevo dato al nerd una settimana prima. Girai subito il foglio e vidi scritte delle coordinate (immagino fossero quelle di dove ci trovavamo ora, più o meno) e il mio nome e numero di telefono.
Allarmato guardai il mio collega e gli chiesi dove aveva trovato il foglio, e come tutta risposta lui mi prese l'avambraccio e mi trascinò lungo un sentierino poco battuto ai lati di un canale agricolo, fino ad arrivare in prossimità di un alto albero solitario dove la scientifica, vestita di bianco, stava lavorando illuminata da potenti fari alogeni.
Sentii a malapena il mio collega dirmi "Ti avviso: potrebbe essere uno shock...": avevo già visto troppo.
Non era un omicidio, era un vero orrore!
Dai rami dell'albero penzolavano brandelli di qualcosa che poteva essere stata, un tempo, una persona, ma che era stata strappata, straziata e sparsa su tutto l'albero in un modo inumano, orribile... Il terreno attorno all'albero era ricoperto di sangue e vi era una immensa bruciatura, che partiva da un tronco spaccato caduto di fianco al canale e si allungava per molti metri nell'erba, come se una lingua di benzina avesse preso fuoco e carbonizzato tutto quello su cui era stata versata.

Forse ero ormai abituato a scene come questa per via del mio lavoro, o forse ero già andato oltre alla normale sopportazione, non so di preciso, ma dal mio punto di vista distaccato mi accorsi subito che c'era qualcosa di davvero strano: sul posto c'era stato un gran trambusto per via dell'omicidio, ma oltre al normale parlare della gente e delle forse dell'ordine non si sentiva niente, neanche un minimo rumore di insetti o di animali. Inoltre il posto e il periodo era sicuramente quello più adatto alla presenza delle zanzare, ma nonostante questo non ce ne era neanche una, nemmeno un ronzio.
Era come se fossimo su un set cinematografico asettico: niente al di fuori di noi e di una grottesca sceneggiatura.

Venni riportato alla realtà dal mio collega che stava strattonandomi la manica della giacca: era palesemente preoccupato, così gli raccontai quello che era successo e perchè ci fosse il mio nome sulla fotografia trovata sul luogo del delitto.
Nonostante la follia della questione lo vidi man mano tranquillizzarsi; per quanto lì ci fosse il mio nome il ragazzo era andato sul posto di sua spontanea volontà, e di sicuro quello che l'aveva massacrato non era un essere umano.
Sembrava più il lavoro di una bestia selvaggia, come una tigre o una pantera, cosa che sembrava confermata anche dal fatto che, sul tronco dell'albero, vi erano evidenti segni di artigli; si stava quindi cercando tra i circi della zona la fuga di uno dei loro animali, magari di una pantera o di una tigre.

Per me però le cose non erano così semplici, dato che non ero per niente convinto che fosse davvero un animale il responsabile di tutto questo.
Le coincidenze era troppe, e mi sentivo in ogni caso responsabile di quella morte insensata, e volevo indagare più a fondo; parlai quindi con il mio collega mettendomi a disposizione e, dopo le formalità del caso e dopo aver indossato una tuta bianca iniziai ad aggirarmi assieme agli altri alla ricerca di qualcosa.

Ad un certo punto, dopo quasi due ore da quando ero arrivato, uno dei ragazzi della scientifica (che era salito su una lunga scala per fare dei rilievi a circa 4 metri di altezza) ci chiamò trafelato, dicendo che aveva trovato una cosa davvero molto strana: le bruciature nel terreno, viste dall'alto, sembravano non essere casuali bensì un simbolo di qualche tipo.
Tutti si mossero immediatamente e pochi minuti dopo c'erano altre 3 scale piazzate attorno e svariati poliziotti che scattavano foto allo strano segno: assomigliava vagamente al simbolo dei fari della macchina, ma un po' più irregolare, e tutti erano d'accordo nel dire che, guardandolo, si provasse un forte senso di disagio fisico, come di nauseante ribrezzo.
Per molti era solo una suggestione visto il posto e quello che vi era appena successo, ma io ero sempre più convinto che fosse accaduto qualcosa di molto peggio di un semplice crimine efferato.

Ne ero sempre più convinto: era successo qualcosa di davvero terribile, di molto peggio del solo omicidio, e l'unico che poteva immaginare quello che poteva essere accaduto... beh, potevo forse essere solo io.
Purtroppo sapevo anche che, se volevo capirci qualcosa, avrei dovuto riprendere il viaggio verso la follia dal quale ero riuscito ad uscire giusto per il rotto della cuffia, perchè non era nulla di umano quello su cui dovevo indagare.
Ma cos'altro potevo fare dopo la morte straziante di un povero ragazzo?

Già sapevo che quella notte non sarei riuscito a dormire: le immagini del boschetto continuavano a tornarmi in mente, ma evitai di imbottirmi di alcool, le ultime volte non era stato affatto piacevole. Io non volevo sognare niente, e avevo bisogno di dormire prima di partire con le indagini dell'incubo alla Dylan Dog.
Presi così una bella manciata di sonnifero, spensi il cellulare, staccai il telefono e il citofono e mi buttai sul divano, crollando in un sonno profondo in pochi attimi.

Nonostante tutti i sonniferi mi svegliai, riposato come un bambino, consapevole di aver sognato più volte quello strano simbolo.
La cosa strana era che nel boschetto questo dava davvero la nausea, mentre il sogno che ricordavo era piacevole e ristoratore.

E in effetti, a pensarci bene, il ragazzo se l'era proprio andata a cercare: io mica gli avevo detto di andare da nessuna parte!
E poi poteva essere stato un animale ad ucciderlo. Anzi: era stato di sicuro un animale, e i segni sul terreno erano di sicuro di pneumatici.
Magari era stato il nerd a farli, quel povero idiota.
Ristorato da quei pensieri mi venne fame, così mi preparai una colazione abbondante e, mentre mangiavo, mandai qualche messaggio in centrale per vedere se ci fossero stati sviluppi sul delitto, per quanto mi interessasse molto meno del giorno prima. In fondo, cosa avevo a che fare io con quel delitto?
In fondo era una tragica fatalità, nient'altro.
Finita la colazione mi feci una bella doccia calda, e mentre mi grattavo la mano mi accorsi di essermi graffiato, dato che stavo sporcando l'acqua di sangue. Davvero tanto, tra l'altro, ma i graffi non sembravano gravi, quindi non ci detti peso.
Così come non detti troppa importanza ai disegnini che stavo facendo sul vapore del vetro della doccia, che assomigliavano molto al simbolo del bosco.
Mentre mi sciacquavo mi sembrò per un attimo di sentire una risata familiare, ma era solo la tv lasciata accesa in cucina.

Avevo voglia di andare a fare un po' di shopping, così mi vestii e uscii di casa.
Ero di ottimo umore, e neanche la signora della porta accanto riuscì a farmelo passare; era una vecchia acida e petulante, ma dopo che l'ebbi spinta giù dalle scale smise subito di parlare, concedendo alle mie orecchie un po' di riposo.
Nel silenzio che c'ere sentii ancora una risatina lontana, e mi ripromisi di spegnere poi la tv non appena tornato a casa.
Una volta salito in auto sintonizzai una stazione radio di musica anni '60 e, col volume alto per poter cantare a squarciagola, mi immisi nel traffico.
Lungo la strada mi fermai in banca per ritirare un po' di soldi, e fui fortunato a trovare un signore attempato che li aveva appena presi per me; doveva essere un po' stanco, perchè dopo che li ebbi presi si era accasciato a terra per riposare, ma almeno ero potuto andare via senza perdere tempo.
Consigliato da uno strano tipo con un gran sorriso pieno di denti e con una bella spillina con il simbolo sopra (era davvero ovunque) entrai in un bel negozio d'abbigliamento, ma mi accorsi presto che i commessi erano parecchio sgarbati nei miei confronti: io cercavo di fermarli ma loro si buttavano a terra e poi smettevano di parlarmi, come se non mi vedessero.
In compenso il negozio era tutto per me, dato che i clienti presenti all'interno se ne erano andati subito dopo che avevo parcheggiato l'auto davanti alle casse, facendomi largo tra gli stand.

Fu così che, mentre mi provavo i vestiti nuovi che avevo scelto, arrivarono anche i miei colleghi della SWAT; evidentemente avevano avuto qualche sviluppo sul caso, perchè erano in tenuta d'assalto, pronti a tutto, e gesticolavano frenetici verso di me, chiamandomi!
In quel momento mi resi conto che non riuscivo ad infilarmi il maglione nuovo perchè non avevo appoggiato sulla panchina nello spogliatoio la mia Beretta PM12; che cosa curiosa, non mi ero neanche accorto di averla presa stamattina.

La alzai per far vedere ai miei colleghi che stordito fossi stato, ma stranamente il mio braccio era indolenzito; anzi, avevo pure sonno.

Mi sedetti a terra mentre i miei colleghi venivano a salutarmi, e l'ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi fu di quello strano simbolo, stampato chiaramente sulla felpa del mio amico BOB che mi salutava, con un gran sorriso pieno di denti, oltre la vetrina insanguinata e sfondata del negozio.

La cache

Questa cache non richiede ALCUNA conoscenza informatica, ed è quindi alla portata di tutti.
Ciò nonostante il livello di difficoltà è comunque alto, dato che non potevo farvela trovare facilmente.
Se (ovviamente dopo l'FTF) vi troverete in difficoltà ma vorrete comunque andare avanti nella storia, contattatemi via mail, sarà per me un piacere darvi una mano!

La cache è un contenitore di plastica, occultato ma comunque piuttosto riconoscibile, contenente matita e logbook.

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