intro
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“al
primo incontro, il retico appare come se fosse di natura siderea:
entra, con violenza, negli occhi ancora pieni del verde della
salita (…).
giunti al laghetto, che è preceduto da pozze in cui la luce,
vividamente immobile, pare ghiacciata, si ha la sensazione di
trovarsi su un mondo appena precipitato, ma non per questo meno
antico: una presenza che reca i segni, immemorabili, del tempo che
lassù si paragona a un vento che sfiori, silenziosamente rodendole,
le rocce e le trasformi poi, una dopo l’altra, in cupe
voragini, scintillanti pinnacoli o lisce superfici.
davanti a questo spettacolo, che ha un suo ritmo formale di
asprezza e di dolcezza e fa pensare agli astri soprattutto quando
l’inverno, a 2372 metri, non è ancora finito o è già
cominciato, si dimentica la storia geologica del retico: una storia
di ghiacciai e di giacimenti, di cascate e di erosioni. poi, quando
questa retrospettiva e ancora tangibile realtà si impone anche alla
fantasia, ecco che sembra di udire, lento e corrosivo, il moto di
questi ghiacciai, striscianti, come enormi vermi, sul sasso, che
scricchiola sotto il loro enorme peso, e di assistere allo
schiudersi, sotto questo peso, della conca che accoglierà il
retico, alimentato, ora, da rivi che si odono, ma non si
scorgono.
questo loro invisibile fluire serve a rendere ancora più segreto il
laghetto che gela facilmente (si direbbe con piacere), quasi
volesse nascondere la sua profondità in cui l’azzurro, troppo
carico, subito affonda e rende ancora più grigio, sul fondo, il
grigio dei sassi (…).
l’erba si rispecchia, nel laghetto, solo da un lato:
appartata e indipendente, non vuole aver niente a che fare con le
pietraie e cerca di far credere di essere cresciuta prima di esse.
guardata dal passo cristallina, che s’apre pochi metri sopra
le sponde, quest’erba è un invito, rivolto dall’opposta
riva, ad andar alla scoperta di un’altra terra: quella scelta
dall’acqua che esce, libera e allegra, dal retico
(…).
se si guarda, tuttavia, oltre il valico, verso il canton grigioni,
ci si convince subito che anche laggiù, sotto i dirupi, vive una
primordiale erba sempre giovane e che pure quella terra è una terra
riscaldata dai colori e frequentata dalle stagioni in cui
l’uomo si sente un altro uomo.
scendendo dal retico (un nome che non perde mai la sua maestosità
orgogliosa e allarga, con le tre squillanti sillabe scandite, la
propria area), si ritrovano, dopo i massi su cui umide macchie
gialle imitano l’asciutto giallo dei fiori, i pascoli e si
cammina, allora, sulle fasce che dividono e distinguono il verde,
che passa, nel ritorno, dallo scuro al chiaro, lasciando infine il
posto a quello inconfondibilmente intenso delle abetine e dei
lariceti, così fitti che il suono dei campani sembra cercarvi, per
farsi udire, un sentiero.”
plinio
grossi
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